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Mare e terraferma: la vanedda urban di Ture Most

Tempo di lettura: 5 Minuti

Ho un rapporto profondissimo con la musica. Da sempre ho trovato, immaginato, pensato  determinate canzoni in base ai momenti, anche i più quotidiani. Suoni che mi “ispirano”, di tutti i generi, parole che raccontano qualcosa, che hanno anche solo un’immagine, una frase che è adatta al contesto. Una storia. Poi, seguono i voli pindarici e mi chiedo: “chissà che cosa, che contesto immaginava chi ha scritto questo pezzo”. 

Quando ho ascoltato per la prima volta i pezzi di Ture Most ero in corsa sulla metro.
Il contesto urban della città ha conciliato perfettamente l’ascolto. Il “dialetto urban”, un valore aggiunto, certamente, per chi come me affonda le sue radici in Sicilia. 

Ma sono sicura che anche chi siciliano non è, ascoltando questi pezzi fa come ho fatto io: piuttosto che ascoltare passivamente, torna indietro all’inizio della canzone per ascoltarne le parole e calarsi in un mood, ad alcuni noto in toto, ad altri sconosciuto, ad altri noto in parte. 

Questo elemento, secondo me, fa la differenza oggi. Per questo motivo, appena ho avuto l’occasione di incontrare Ture Most gliel’ho detto che avrei voluto raccontare la sua storia, questo suo mondo contaminato da una tradizione forte che sgomita nel nostro secolo. 

Una chiacchierata lunga, ricca o ‘ co cummu, per usare un’espressione che usiamo noi per indicare i piatti colmi, in cui mi è sembrato di sfogliare un album fotografico. Mentre scrivo e ricompongo le risposte, le immagini tornano e i suoni sono il sottofondo, i campani ca sonunu

Questo ammiscatu di sensazioni mi porta a dirvi d’immaginare questa chiacchierata o assittati a tavulinu, dopo un pranzo della domenica, o seduti sul muretto a Torre Archirafi. 

Queste immagini, se pensiamo a Ture Most e alla sua musica, sono molto più urban di quello che si pensa.
Ho utilizzato l’espressione dialetto urban ma lui ha, giustamente, meglio descritto una delle summe di Ture Most: vanedda urban km 0, tipo bio.

La littorina che “sfreccia” sui fianchi della valle dell’Etna. Una vanedda urban che scippa a destra e sinistra cose e compone un mazzo moderno, non legato alla tradizione del ciuri ciuri.
La sperimentazione c’è ed è la punta dell’icerberg di Ture Most. 

Preferisco essere volutamente criptica, darvi delle frasi, degli elementi per farvi incuriosire e interpretare. Del resto, lo stesso autore non ammette i suoi tratti significativi ma lascia a chi ascolta l’onere di individuarli. 

Io ci ho provato, senza obbligo, ma con un grande piacere ed ho trovato, ancora volta, come per le immagini di prima, qualcosa che apparentemente sembra distante dall’idea dell’urban: il sentimento, per la terra, per la famiglia e per il proprio Io. 

Ture Most è Salvo Mostaccio, Salvo Mostaccio è Ture Most. Nel nome d’arte c’è un pezzo di vita di Salvo, i suoi anni del liceo, quelli do buddellu a scola, dell’ascolto della musica come specchio in cui vedere le proprie infine storie, del rap, ascoltato, vissuto e avvicinato.

Un tuffo a bomba dallo scoglio verso il mare del rap per utilizzarlo, studiarlo e sperimentarlo; e sempre dallo scoglio, come un faro, il suo predecessore, il padre, la sua guida, il punto di riferimento sorrideva già con sguardo complice di chi ha già capito che le onde sono favorevoli. 

Il vento fu buono per conciliare il viaggio esplorativo. Tra il 2006 e il 2009 una prima fase di sperimentazione. Poi la separazione dalla luce del faro. E di nuovo sullo scoglio per capire come guidare di notte i pescatori. 

Una fase di pigghia e lassa fino al 2018 in cui l’album di foto deve essere nuovamente riempito.
Un momento in cui Ture Most salva Salvo Mostaccio e si fonde. 

Non c’è distinzione, non è Spiderman e Peter Parker, è un tutt’uno: come la salsa con la cotenna che preparava la nonna. 

La scrittura è stata una prova, una parentesi di scoperta. C’era una smania creativa. Da degno figlio di Jonia, come a Muntagna, ha eruttato, scassau. Una colata lavica lenta e inesorabile che incontra la valle favorevole della commistione con il fratello. Una lava che brilla anche grazie alla luce del faro. 

Tutto prende forma dalle cose, dalle circostanze, dalle immagini e dai suoni. Una modalità che rimanda alla semplicità dell’infanzia, alla genuinità dei frutti, alla quiete del mare che viene interrotta dallo sbam de “[…] u piscatori ntappa u puppu nto scogghiu” come recita in La luna sul canneto. 

Questo fare, fici scrusciu. Piccole e segrete poetiche più o meno nascoste che arrivano a toccare le emozioni di chi ascolta; la sagoma di Ture Most si inizia a delineare mentre si guardano nuvole che come pezzi di puzzle si avvicinano o allontanano, hanno un filo logico chiaro che ha il gusto del nuovo e del passato: ed ecco che ti invade la Mostalgia un album-cofanetto, un viaggio, una scatola di ricordi, un’amalgama. Il progetto, i progetti sono pluri mani: non soltanto Ture Most ma anche il fratello, R-Most, produttore, e tutto il team in cui ancora una volta il sentimento e l’affiatamento dettano le regole e dove ognunu ci metti u so

Ogni pezzo ha una storia, è un flusso energetico che si insinua come l’acqua salata tra i sassolini che poi vengono presi dal mare e chissà dove arrivano e chissà se dove arriveranno saranno in grado di rilasciare quell’ancestrale energia. 

Sbuco dal mio mondo, i segni riconoscibili li chiedo agli altri. I miei punti fermi sono calati nel mio mondo e chi li avverte si fa un’idea di quello che sto facendo e sono grato se questo arriva […].
ll messaggio che voglio che passi anche quando mi approccio in maniera più forte può essere anche di critica ma voglio che, comunque, passi e sia costante, incisivo. ”

Questo modo autentico fa vivere l’esperienza Ture Most come una passeggiata nel giardino a settembre. Cogli i frutti di ciò che è stato seminato. I frutti sono buoni, piacciono. Il pubblico è partecipe, si addentra e capisce. 

All’inizio quello che facevo, sia per l’entusiasmo sia per la connotazione tipicamente territoriale, è stato largo e potente, ci sono stati grandi numeri inaspettati ed ho visto che, con il prosieguo, seppure -scupa nova scrusciu fa- il tutto è proseguito”. 

L’impatto con i live ha avuto ed ha un valore enorme, non capita di restare senza falò, il calore c’è e si sente ed è il motore, un po’ nuovo ma con pezzi di quello della Renault 5,  che spinge Ture Most a non essere fan service e a continuare a scrivere per un bisogno suo, un’esigenza per volare in alto in quota, in continua evoluzione. 

Il futuro è uno schizzo davanti al mare increspato in una giornata limpida in cui da Torre si vede tutto: da Taormina a le Calabrie. Questo orizzonte è fisso, c’è anche se il tempo si spascia: crescere e coltivare la musica con genuinità, percorrerla con uno sguardo profondo e focalizzato anche ad altri e paralleli obiettivi. La musica non deve essere un hobby, Ture Most è questo, e, gira furia e vota, non si leva u viziu di campari

Sperimenta nell’oggi, mentre ppa strada sente sciauru di mulinciani fritti,  ieri e nel domani. Ma alleggiu: se andiamo troppo celeri, non ci godiamo gli alberi, le nuvole, le rondini. La meta può aspettare ancora un pò, gudemuni a strada. 

Non resta che mettersi le cuffiette, aprire Spotify e ascoltare questa storia.

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