
«Parola d’onore, Eccellenza, essa è bella come il sole!»
Cantava Fabrizio De André, nel brano “Via del campo”,
«Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…».
E che di un fiore si tratti non v’è dubbio alcuno, certo, sebbene sia privo di quella purezza originaria e di quell’inno alla semplicità che il grande cantautore genovese volle imprimere nel suo brano.
Anche il nostro fiore è nato dal letame; ad esser più precisi, dalla merda proprio.
Madre bella e animalesca, donna Bastiana, figlia dell’affittuario di Runci, Peppe Giunta, da tutti chiamato “Peppe Mmerda” per la sua straordinaria sporcizia, celata dal marito per la gelosia estrema verso una creatura tanto bella quanto inadatta alla vita sociale; padre scaltro e in ascesa, Don Calogero Sedàra, proprietario terriero e attivo protagonista della vita politica paesana, pronto a saltare sui posti vantaggiosi del nuovo Regno d’Italia; parliamo ovviamente della bellissima Angelica, l’amore travolgente di Tancredi nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo.
Nel complesso sistema della trama, Angelica appare come una folgore che colpisce trasversalmente gli strati sociali in cui i personaggi sono a stento ancora organizzati. Perché di un sistema socialmente ripartito si parla, quello dell’Italia post-unitaria. Un sistema in cui l’antica aristocrazia si trova a dover condividere le eleganti stanze del potere con i nuovi attori della vita sociale nazionale: i borghesi, ancora sporchi della terra dei campi e con il frack malamente imbastito da sarti girgentani e usato impropriamente come abito da pomeriggio.
Ma nel gioco impietoso delle sostituzioni sociali, di Don Calogero che entra come un sorcio negli splendori del Palazzo dei Salina con un abito totalmente inappropriato all’occasione in un maldestro tentativo di adeguamento ai costumi aristocratici, Angelica cancella tutto il disagio derivatone con la sua bellezza folgorante.
Non perfetta ma inaspettata, la nipote di Peppe Mmerda (il nomignolo del cui nonno servì solo da fertilizzante per questa rosa, come ebbe a pensare Don Fabrizio) annulla in un sol colpo la distanza sociale incolmabile tra il cencioso e presuntuoso popolame e l’antica, elegante dignità dei Principi di Salina.
Si tratta di un abbagliare inevitabile, necessario allegorico; Angelica, “ripulita” dalle sue brutture d’origine in tutti i modi possibili (mandata a studiare in un collegio fiorentino per eliminare lo strascichìo del dialetto, vestita di volta in volta con contenuta esuberanza, consapevole della sua bellezza ma anche del dover accedere agli standard di Tancredi a poco a poco), rappresenta la nuova, scalpitante classe sociale che, fresca ed energica, cela una voracità e una frugalità del tutto contadine. La sua è una notevole camaleontica capacità di adeguarsi alle raffinatezze di quei nobili che, a malincuore, devono accettare l’inevitabilità di questa sostituzione sociale che il nuovo Regno d’Italia porta con sé come degradante compromesso. Angelica, dal nome altisonante e simbolico, oltre che ricco di reminiscenze letterarie, cela uno sguardo a tratti crudele, adatto a simboleggiare il disincantato senso di impotenza con cui il principe di Salina, consapevole di essere stato un lupo nei confronti del popolo, osserva l’ascesa di altri, nuovi lupi, convinti di essere degli eletti. Lo sfondo della Sicilia, ruggente di luce spietata e abitata da siciliani-dèi (e quello con Chevalley, alla fine del quarto capitolo, rimane uno dei dialoghi più significativi dell’intera letteratura, siciliana e non), offre un palcoscenico tematico sul quale si svolgono vicende che, prima di essere schiettamente isolane, sono umane.

